Tra i libri che non possono mancare nella biblioteca di un viaggiatore dei nostri tempi, va senza dubbio annoverato il libro “Non ho parole”, tradotto dall’originale francese “Les mots qui nous manquent”, pubblicato di recente in Italia dall’editore Armenia.
“Le parole mancanti ci fanno crescere, allargano i nostri orizzonti” si legge nella prefazione a cura delle due autrici, Yolande Zauberman e Paulina Spiechowicz. “Scrivere questo libro è stata un’avventura profondamente umana …che ci ha fatto attraversare molti paesi, religioni, abitudini, credenze e superstizioni. Alla fin fine è stato un modo nuovo di viaggiare, di andare incontro ad altre culture e civiltà e, soprattutto, di varcare i limiti del nostro mondo grazie alla lingua, cogliendo qualcosa del mondo che ci manca attraverso la lingua dell’altro”.
E allora andiamo subito all’argomento “febbre del viaggio” uno dei tanti affrontati nel libro: se siete divorati dal Fernwech, ossia dal mal d’altrove, sarete sempre in movimento, ossia un Reisehonkel, guidato dal Drang, desiderio spasmodico e insoddisfatto di nuovi orizzonti, per rimanere nell’area linguistica tedesca.
Ma non solo termini ed espressioni legati al viaggio. La gran parte dei sentimenti ed emozioni, così come varie situazioni, sono rappresentate nel libro: troviamo parole che esprimono il riso e la rabbia, la gioia e il dolore, ma anche modi di indicare le persone colleriche, le cattive abitudini, le mascalzonate, le abitudini alimentari, persino le donne di talento… Con quale verbo poteva iniziare questa ricerca di parole ed espressioni curiose che si susseguono per oltre 300 pagine? Naturalmente con l’azione del “camminare” o meglio, dei vari modi di camminare “resi” in alcune lingue. Per concludere con la “gioia” passando da argomenti quali il matrimonio forzato, l’ipocrisia, la pigrizia, la malattia, la nostalgia, il deserto, il desiderio, la guarigione.
Ed ecco allora che utilizzando alcune parole indicate nel volumetto, si può andare ad ammirare la pustza (steppa erbosa in ungherese ) sotto l’erir (la volta azzurra in lingua tuareg), uscendo alle prime luci dell’alba, per ascoltare il canto dei primi uccelli, come si usa in Svezia, consuetudine nota come göktta, in attesa che, magicamente, si manifesti il satori (risveglio spirituale in giapponese) o che, all’opposto, si avverta il karat (in lingua armena, la mancanza delle persone o dei luoghi che abbiamo amato).
testo di Licia Zuzzaro |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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